Il decalogo del perfetto ristoratore milanese
(aka: “quando una campagnola emiliana si avventura nella tentacolare metropoli e ne viene leggermente sopraffatta”)
1) Less is chic. Dimentica le trattorie da camionisti con i loro piatti strabordanti e il vino schietto in caraffa. Le porzioni? 70g di pasta come da consigli del nutrizionista, ma quando è incazzato.
2) Km 0 is chic: se apri un locale a Milano, puoi permetterti di far pagare il rosmarino raccolto nell’aiuola fra Viale Pisani e Stazione Centrale come se fosse oro colato. Perchè, baby, è a km zero.
3) Far is chic: agli antipodi del km 0. Il latte del cappuccino? Malga della Valle d’Aosta, a 3000m d’altitudine sul Monte Bianco. I pomodorini? Solo datterini di Pantelleria, che li facciamo arrivare su coi capperi. Pastificio artigianale dell’hinterland avellinese, burrata di Spotorno, il sale è nero dalle Hawaii, la farina di lupini è macinata a pietra dai Malavoglia. La parola d’ordine è esagerazione, infilando random una manciata di “bio”, “dop”, “presidio slow”. Anche se di slow, come vedremo, non c’è proprio nulla.
4) Veg is chic: diciamocelo, se non proponi almeno un piatto cruelty free nel menu, non sei nessuno. Seitan, tofu, muscolo di grano, soia. L’importante non è la sostanza, ma l’apparenza. Sul menu. Con un numero a doppia cifra accanto.
5) No tovaglia è chic: niente tovaglia, basta un tovagliolo di carta e “una lavata e un’asciugata” dopo il fiero pasto. Posate compostabili, bicchieri di canapa indiana, piatti di ceramica se proprio devi, ma niente altro. Come al punto uno, la tovaglia sarebbe troppo mainstream, less is chic.
6) The cat on the table is chic: eh sì, a Milano capita anche di mangiare circondati da enormi gatti che pascolano indisturbati nel locale. Ma non li puoi toccare, disturbare, guardare, fissare, chiamare, non puoi allungare la mano ad accarezzarli. Divinità egizie al servizio della ristorazione meneghina, ma compresa nel prezzo, sempre carissimo, anche la voce “cat therapy”, perchè noi siamo fighi.
7) Fast food a prezzi slow is chic: ed eccoci qui. La macchina della pausa pranzo milanese è un ingranaggio perfettamente oliato. Arrivi, ordini, forse ti servono ma più facilmente devi arrangiarti, mangi con un cameriere avvoltoio che osserva, appena porti alla bocca l’ultimo boccone il tuo piatto è già sparito (e la scarpetta??), il caffè è già sul tavolo, bene, se ha finito grazie e arrivederci che abbiamo la fila fuori. Totale: 18€ si paga alla cassa, grazie.
8) La fattura è chic, -ma ci fa perdere tempo-. Sì, l’esercito delle p.iva che infesta i locali milanesi in pausa pranzo ha questo bellissimo vizio: chiede la fattura, perchè di tasse ne lascia giù abbastanza nel corso di un anno di lavoro. E chiedere la fattura in un ristorante milanese nell’ora di punta equivale ad attirarti le ire funeste del cassiere, che è rientrato dalle ferie 2 settimane fa e con apprensione vede srotolarsi davanti a sè altre 48 settimane di imbruttiti che vogliono la fattura. E te lo fa pesare, oh se te lo fa pesare, come se fosse un affronto personale e non un diritto minimamente acquisito. Facciamo così: mentre bestemmi e mi dici di aspettare per farmi la fattura, chiamo un attimo la GdF e gli spiego cosa succede qui, che ne pensi?
9) Tap water is chic: questa non è una critica, dal punto di vista ambientale dare acqua liscia o gassata erogata dal rubinetto è un notevole risparmio in termini di plastica e vetro che girano. Ma perchè mezzo litro di acqua “osmotizzata” (parliamo di questo termine, vi prego…) me lo fate pagare 2€?
10) Mugugno is chic: e infine, il must di ogni degno ristoratore, cameriere, barista milanese. NON SORRIDERE MAI, non salutare mai, essere sempre incazzati col mondo, rispondere male ai clienti e soprattutto trattarli con cortese disgusto, perchè in fondo il cliente avrà sempre ragione, ma spesso e volentieri è un grandissimo spaccamaroni.
Bah, io domani scappo in Romagna a farmi coccolare un po’ a piade e strozzapreti, a Milano ci torno poi quando hanno finito le geremiadi per le ferie finite, che è meglio…